• :
  • :
  • :
  • :

Recensioni (Only Italian)

Domenico Defelice:

Nella favola di Mario Lodi Il Drago del vulcano (Giunti Editore), il bambino – cioè, l’innocenza – convince cittadini e autorità a non uccidere il Drago, perché non è cattivo, anzi, riesce a far del bene, tanto che, moderando la fiamma che esce dalla sua bocca, fa cuocere la pasta a una famiglia povera: «mentre i suoi fratelli osservavano meravigliati l’enorme bestione, il bambino gli indicò la pentola: “Un po’ di fuoco, per favore”. Il drago si accovacciò davanti alla pentola e soffiò una fiamma lenta, leggera e continua che in pochi minuti fece bollire l’acqua. La mamma buttò dentro la pasta, con una razione in più per l’ospite». Il Drago è senz’altro tutto quel che Carlo Trimarchi scrive ne L’Uomo messo a nudo, ma anche l’infanzia e l’innocenza, anzi, prima questa da tutto il resto. Siamo noi, crescendo, guastandoci dentro, che rendiamo il Drago cattivo oltre il suo naturale e l’uomo è drago feroce per eccellenza, impastato com’è di male e di bene. Il Drago trimarchiano ci rappresenta nella nostra totalità, ma prima di tutto nel nostro candore, tanto è vero «che sorrideva,/sia d’autunno, che di primavera». E siamo sempre noi – l’uomo – ad ucciderlo, noi, fonte di ogni stortura. Se cambiassimo, probabilmente cambierebbe tutto il resto e lo stesso Drago finirebbe di sputare fuoco; ciascuno di noi tornerebbe fanciullo, vivrebbe in perfetta simbiosi con la nostra terra e il cosmo; la vita, pure in presenza di malattia e morte, non perderebbe la sua poesia. Trimarchi sul bambino e sull’infanzia torna spesso. Il bambino è innocente anche quando sbaglia, giacché la colpa non è sua, è dell’uomo maturo che non ha saputo educarlo. Noi tutti, però, «Siamo fatti come siamo fatti»; così, purtroppo, «nemmeno da un dio in persona» possiamo venire trasformati quando manca la nostra volontà, quella di ogni singolo, perché l’Umanità non è astrazione, è composta da ciascuno di noi e ciascuno di noi deve assumersi in pienezza le responsabilità. Sbagliato è stato da sempre, e continua ad esserlo, delegare «ad altri le decisioni» importanti; occorre che ciascuno di noi, singolarmente, si assuma il «fardello», disposto, s’è necessario, a sacrificare la «stessa anima». Tutto questo e altro Carlo Trimarchi ci presenta in forma di brevi fiabe, a volte inzuppate di sarcasmo, o di felice ironia, di sberleffo, sempre con agilità sorprendente, anche allegra diremmo, sempre musicale; il ritmo è quello di moderne canzoni – non per niente è citato De André – e spesso i brani possiedono anche il necessario ritornello, come ne “Il Drago che sorrideva” («Villaggi bruciati,/villani malati,/soldati scappati,/vecchi sfollati»), da ripetersi dopo ogni strofa, o come in “Bianco” («Non un oggetto,/non un ricordo,/solo un folletto,/che salta nell’orto»). Molte le figure, come quella dell’artista vero, che non mira alla ricchezza, non lavora pensando solo a quanto potrà ricavare in termini di denaro – dio assoluto dei nostri giorni, al quale si è disposti a sacrificare anche gli affetti e le persone più care –; l’artista vero e onesto si accontenta di poco, ha sempre nel cuore «la primavera», è l’arte ad appagarlo, fermentandolo di continuo, permettendogli di realizzare «opere immortali». Ogni brano sprizza allegria e con allegria va letto, anche quando il suo contenuto verte su temi che allegri non sono, come le tante violenze e la guerra; sì, la guerra, giacché, purtroppo, «La guerra è dell’uomo,/non dell’animale», che vuol dire essere noi peggiori delle bestie. Per esprimere tutto ciò, però, non occorre un linguaggio arcigno e truculento; sono più efficaci gioia, velato sarcasmo, un pizzico d’ironia. La poesia di Carlo Trimarchi va letta come «un sirventese del trecento,/pieno di forza e di soavità» – per dirla col Carducci –, o come una specie di saltarello francescano, che metta pace e rilassi anche quando ha per oggetto la morte.